Oltre Umido Totale

L’assoluto capodanno è per le dieci e punto zero zero:
penetriamo nel regno dell’inganno. Qui è dove
la massa esisticante (del tutto impunemente)
si complifica. Dietro quel cinque e nove
sta inchiostrando (ante monumentale porta, lì in funzione
clitica) l’omuncolo stenografo eccellente, di fronte alla mia
forma paralitica. Certifica:
D I S C O N N E S S O – in un sedici gennaio
verde fragola. Segue la palingenesi archetipica:
vittorificato nell’uno-e-novantotto-qualchecosa
si disvaccarerà in melma d’artista. Cuore di foglia
e bocca da arrivista: basterà questo, quindi basta.
Saluta roba e cari (seguono vasti eccetera con vista)
e si trasloca altrove Modello: l’Escapista.
Fuori tratto attratto da un ritratto,
armato solo d’aria e di F5
riaggiorna tutto il campo delle coercizioni spinte.
Ponti che log-outtano per finta, strali di menzione, sorrisi
selfiencrostati da copione, morso di marketing
multicompiacente, non mi fai niente. Lastre dismorfiche
sotto-compassate: non mi fregate. Salto dal molo
e innesco lo scivolante movimento-scolo che mi
trafugherà dal palinsesto, morto risorto porto in me
col resto ciò che rimane di ciò che veste il testo.
Non mi piangete. Sono dove resto. Se ci siete,
ci rivedremo. Presto. Ma chi tra chi? Il gioco di prestigio,
amici, è questo.

L’offerta sociale

L’altro idioma che parlo
con istinto madrelingua
straconfusamente
nello sguazzo vittoriotesta
ci ammazzerebbe tutti
se non avesse amato o
scorticato per troppi solstizi
i miei polmoni da tosse
– loro si che assorbivano
nei cassetti o sui termostati
con l’aria supina e stupida
le vostre salive isteriche.
Se non avessi
provato e riprovato
a imitare tutte le vostre
varie e varie maniere
e workshop per galleggiare.
Come il fatto inconcepibile
della vostra fottuta prosa
che torno a svescicare
con fisiologica incontinenza
per assomigliare
(insieme a voi, compagni)
all’ominide digitale
che strutturiamo e deliziamo;
siamo o non siamo pronti
a perpetrarci l’un l’altro
come oscure faccende
limitrofe? Eccomi divenuto
l’individuo accumulato
pronto a pagare. Vado alla cassa
saltellando graziosamente in versi
che sminuzzati in sillabe non sono
(più) nemmeno parole.
Arcinchiodatemi alle vostre,
con cui possa riciclarmi
quando mi abbiate differenziato.
(Intanto sul prato bianco
una finestra spalancata
cataloga intransigente
la splendida vitaccia pubblificata:
ricordi la febbre di sole?
Ricordi
Ricordi quel bacio all’ortica?
Ricordi, ricordi Vittorio?)
O potremmo abbarbicarci in qualche
necrologio: pare sia morto
qualcuno, un certo, un tale
che è tutto una perdita.
E io, quando muoio, io?
Quando potrò disgregarmi
nel vostro consenso?
Quand’è che ci incastreremo
mani nelle mani
per quel me che tra noi
ha fatto scuola? Ci aspetteremo
allora? Mi aspetterete alla stazione
della vostra sopravvivenza?
Se non allora, quando?
Una data un giorno un istante
fissati, da segnare in punta di chiodo
tra quei fitti codici molto efficienti
che sapranno rammemorarmi:
“L’oblio che sei stato
parteciperà a un evento
vicino a tutti quei casualmente adunghiati Loro”
(Incalcolabili i cautelativi Probabile.
I Parteciperò specialmente, ricollocabili).
E comunque archiviato sebbene,
sebbene molto, e bada bene,
molto, molto amato. Questo Mi Piace.
Mi tronca un conato.

Lupi di mare

E’ perché senti
la musica, se mi
raggiungi. Tenti
una nota ruvida
per calpestarmi,
getti il tuo come-va
più solido, forse
sei ironica. Io
scazzo un teso Fa

e attacco: come vuoi
che vada, come!
vado poi, se tu,
proprio tu, quoque! qui
mi copri il margine.
Dove le piazzo
tutte le note
che ho rovistato
sotto quel margine.

Cara mia, l’argine
io te lo butto giù
io te lo butto giù!
poi verrai fuori, tu.

Vieni e ti piovi qui
sulla mia isola
che ti aspettavo, vabè
ma c’è uno squalo
che sta inforcando il blu
dietro di te. E me lo porti
qui? Certo che sei un po’ più
stronza che ingrata!
Annaspi una frase
che non sa di niente,
mi appendo al sax
come a una trave,
naufrago ok, ma questa
nave… (non era un’isola?)
Mi asciugo un attimo,
dai mi riposo un po’
sai qui c’è troppo blu,
per me c’è troppo blu.

Ma non lo vedi che
qui è tutto un limite,
che la frontiera (ah-ah!)
mi fa il solletico
Che sogno e scrivo
e sottovento
lo squalo sente
questo tormento.
Questo tormento blu.

E sai che c’è,
sai che ti dico?
che resto qua,
vieni ma sbrigati
che avevo pronta
dall’altro verso già
una zattera d’isola
solo per te.

E impugno meglio il sax
venga lo squalo che
che ci ha sentiti si,
versare il mal di te
dal sottovento beh,
io resto qua
dentro il tuo blu…

(Tutturutù, tutturutù)

Meditazioni

Qui si sparpaglia l’intonaco guasto.
Dal mezzogiorno di qualsiasi oggi
un fiore di luce la grata
fende, sfoglia a sfoglia, sugli sfiniti
mozziconi schierati. Misurano
la somma dei giorni che ho spaccato
per amalgamare notte alla notte
fino all’impasto arrugginito dell’alba.

Rêverie

Una notte sognò un luogo che la mente gli giurava familiare ma a cui nonostante tutto non sapeva dare un nome. S’imbatté così in un’avventura dello spirito che l’avrebbe segnato per molti anni e forse quanti gliene restano da vivere, perché ancora vive.

Raggiunse l’orto dal logoro portoncino di un casolare malmesso. L’aria fredda di una notte uniforme e senza stelle presagiva l’evento acquattato in attesa.

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Sul fondo dell’orto circoscritto da una cornice di rovi essenziali un corvo si dimenava per l’aria vuota, intrappolato nel nevrotico volteggio solo apparentemente libero, solo apparentemente, poiché il niente che sovrastava l’ultimo contorno dell’ispido cortile gli opponeva una resistenza non naturale; l’aria, esatta come una parete, lo ricacciava indietro ad ogni assalto precludendogli quell’oltre che era un vuoto di buia nebbia. Il Sognatore, incerto, sacrificò gli indugi per sfogare un’urgenza che non sapeva giustificare a sé stesso e non poteva rifiutare. Avanzava un passo dopo l’altro cercando una visione più chiara sulla scena; per qualche ragione, il cuore gliela descriveva angosciante e tetra. L’orto gli si offriva grigio e sterile, quanto vi era stato seminato il terreno o misteriose circostanze avevano concorso a privarlo delle condizioni per qualsiasi fioritura.

Gli urti silenziosi ma reiterati del corvo impazzito estraevano dalla calma ripugnante del contesto lampi di reazione, scuri vagiti di movimento. Dal suo becco spalancato sporgeva una testa di rosa disidratata.

La tortuosa specie di associazioni che spesso compone l’itinerario del sogno suggerì al Sognatore che la rosa e la follia del disperato andavano attribuite al dolore della segreta ferita che le congiungeva e coniugava; la rosa, quella rosa, doveva prolungarglisi con fibre e con spine nella gola contratta dai tentativi spasmodici. Da questo dolore – pensò ragionevolmente il Sognatore – l’inquietudine dell’uccello si nutriva.

Così, approfittando di un suo volo più incerto, riuscì a catturarlo e a stringerlo tra le mani, subito punte, poi lacerate e infine dilaniate. Nonostante questo il Sognatore raggiunse la rosa e la estrasse tenendola sul palmo come una reliquia degenerata. Non si curò più dell’immobile sacca di piume che aveva ospitato la frammentata santità del fiore; seduto, con la rosa appassita sulla mano cauta, prese a parlare parole che nel mondo del sogno erano reali ma che risultavano incomprensibili a quella specie di spettatore inafferrabile che è la vera nostra essenza mentre sogniamo.

Il tempo iniziò a cadergli attorno dolcemente, incalcolabile, finché un coltello di pace giunto da chissà dove, da chissà quale feritoia nella notte indistinta, trafisse con un singolo colpo il nucleo di oscure suggestioni che scaturiva dal suo petto il senso del canto di morte che andava cantando. Scese un calore santo e benedicente sull’arco della schiena del Sognatore, e se ne dissetò. E tacque, in estasi. La rosa rifiorì come per incanto.

Oltre la palizzata di rovi incastrati una violenta primavera brillava nella vastità sparsa. Il suo cuore ne ebbe fame e il suo corpo desiderò sfamarlo, così il Sognatore balzò verso la recinzione gridando con gli occhi tutti i nomi dei fiori che conosceva, tutte le forme della vita che ricordava e che l’attendevano, ora, solo che riuscisse a scavalcare la cornice. Tentò. Tentò molte volte, ma invano: ancorato al terreno, quasi che nel tempo intercorso un fascio di spettrali radici lo soggiogasse al terreno atro.

Era disperato, inferocito, quando udì lo stridore dei cardini che da qualche parte, troppo vicini, ancora sorreggevano la porta che lui stesso aveva varcato. Lo invase un’angoscia spietata che la fornace delle sue paure trasformò prima in rabbia, poi in furia. La rosa che era peso e fragranza del nuovo sogno oltre il sogno, irrinunciabile, la rosa che l’aveva liberato e prometteva  nuova eterna salvezza gli sarebbe stata sottratta, semplicemente rubata. Per sempre. Il Sognatore non poteva permetterlo, no; avrebbe colpito per primo, avrebbe…

Al risveglio, che come spesso accade s’instaura esattamente sul culmine indeterminato da cui sprofonda il sonno, ritrovò il luogo che chiamava casa, nel letto che considerava il proprio e sicuro del nome con cui era stato battezzato. Tentò di strappare via dalla coscienza i residui del sogno; si cercò la rosa nel palmo, senza trovarla. Indagò tra le lenzuola ma non trovò nulla; né un petalo, né una piuma. Come gli apparì tutta inutile e vana all’improvviso quella triste fatica del sogno. Nella sua casa, fuori del suo letto e indossando il suo nome, riprese a vivere perché non c’era altro da fare.
Anni dopo, a un’ora imprecisata del mattino – non sarebbe utile, qui, riportarla con precisione o datarla – sentì battere dalla finestra un colpo morbido e la porta aprirsi dopo poco annunciando con un fischio di gangheri una visita. L’evento – chissà perché allora, chissà come – dovette fargli vivificare d’un tratto il ricordo di quel sogno affamato che aveva vissuto nel suo altrove anteriore. Ricordò anche ciò che si era ripromesso un istante prima di venirne strappato: non l’avrebbe permesso, no. Nessuno, nessuno, soltanto sua sarebbe stata la rosa.

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Ho scoperto ciò che era già noto ad altri solo alcuni giorni dopo, avvertito da conoscenze comuni; ci siamo spesso attardati – e di tanto in tanto ancora indulgiamo – sull’inspiegabile vicenda, traendone ciascuno l’utile miserabile di una nuova teoria del tutto insoddisfacente. Non so perché ma non appena ne fui informato strinsi un forte nodo dentro di me, un nodo con cui osavo legare il delitto avvenuto quella mattina al sogno che quel Sognatore travestito da Nome (un nome che amavamo, che ci era amico e credevamo di conoscere) volle raccontarmi anni prima, in confidenza, da Nome a Nome, e di cui non ho mai parlato ad altri che questo schermo. Non m’illudo: presto o tardi queste parole nascoste mi tradiranno, per vanità o per incidente; qualcuno le troverà, le leggerà, e io non sembrerò meno folle del Sognatore. Forse non lo sono, forse non lo è nessuno.

Quella mattina, finalmente, finalmente, un canto di fiori e un calore oltreumano penetrarono l’infida realtà della stanza e la finestra crollò spezzata su tutto: crollarono il letto, il nome, la soglia tra l’esterno irraggiungibile e l’interno quotidiano, che mi divenne per sempre insignificante. Questo dice sempre, ancora oggi, a chi lo interroghi sul delitto che ha compiuto. Nient’altro.

Gra-vi-tà

Oh come si stravede la lubrica pretesa
(la modica contesa) che già ci arrischia il piede

se quasi risopita mi spieghi commentata
l’insipida scalata verso la vetta antica;

la vetta solitaria che signorotta austera
vuol dominata intera la piana centenaria;

Spiegami: dove muore una dilamata altezza
crepata di vecchiezza? muore dove ebbe albore,

è dove muore, amore, l’arancia dondolante
caduta finalmente sul suo terreno autore.